26 Gen Un anno senza Kobe
Un anno senza Kobe, un anno da quel 26 gennaio che ancora oggi sembra irreale. Se ripenso a quel pomeriggio, ogni dettaglio, ogni particolare di quel momento è nitido, chiaro e immutato come se il tempo si fosse fermato. Ero a New York e la mia mente ha fotografato ogni attimo, impressione, le parole e il ricordo di chi ho incrociato per strada o sul vagone di una metro.
Era l’ora di pranzo e mi stavo avvicinando a Union Square. Avevo poco tempo e ho addentato un sandwich al volo. Sfruttando il WiFi del locale, ho iniziato a mettere mano a un video girato il giorno prima a Brooklyn. Non riuscivo a trovare la concentrazione necessaria, così ho aperto il taccuino per prendere qualche nota. Notifica sul telefono. Un messaggio dal mio amico Fabio. È morto Kobe. In un primo momento, ho pensato che fosse tutto un errore, una fake news. E invece no. Il telefono ha iniziato a suonare fuori controllo. Messaggi da amici in Italia, mi chiedevano notizie, aggiornamenti. Ho cercato informazioni online, l’articolo su TMZ, la conferma e il silenzio.
NBA Store
Ho provato un senso di smarrimento e avevo necessità di una boccata d’aria. Dopo aver ordinato le mie cose, mi sono buttata nel caos di Manhattan. Percepivo una sensazione di estrema confusione, ma ho preso comunque la prima metro diretta ad Uptown.
Ho percorso a piedi un paio di blocchi sulla 5th Avenue, fino all’NBA Store. L’ingresso era occupato da circa 40 persone, ragazzi, famiglie, bambini, tutti con lo sguardo puntato al maxischermo dietro alle casse. ESPN trasmetteva le breaking news, i primi post, i tweet, lo sconcerto, il dolore e quelle jersey giallo-viola che iniziavano a riempire le homepage di tutti i social network. Ho sentito un forte senso di inquietudine e ho cercato il conforto nello sguardo di chi mi era intorno. Fuori dallo store, un presidio di telecamere e due giornalisti che bloccavano i passanti per raccogliere un ricordo, una testimonianza.
Madison Square Garden
In programma quella stessa sera, la partita fra Knicks e i Nets al Madison Square Garden, confermata con l’assenza di Kyrie Irving. Ancora a piedi e un’altra metro, destinazione Penn Station. Mi sono seduta sui gradini di Pennsylvania Plaza per osservare il pubblico in arrivo. Un uomo di mezza età si è avvicinato. Vendeva i biglietti fuori dal palazzo, mi ha guardata e mi ha chiesto chi fossi e cosa facessi a New York. Due chiacchiere sulle rispettive esperienze di vita e poi inevitabilmente siamo finiti a parlare di Kobe. Intorno a noi si era composta una folla di maglie giallo-viola, 24, 8, Bryant e il nostro sguardo si è rivolto verso il cielo.
Kobe Bryant Park
La mattina seguente io e Kiara ci siamo svegliate di buon’ora. Una notte turbolenta e quasi non siamo riuscite a chiudere occhio. Una testata locale ha fatto circolare la notizia che un ragazzo aveva lasciato una dedica a Kobe alla fermata di Bryant Park. Avevamo una classe da Apple al Meatpacking Distict, ma volevamo trovare quella scritta a ogni costo. Coordinate alla mano, siamo scese per cercare sulla banchina in entrambe le direzioni. Sembrava non esserci traccia, poi all’improvviso abbiamo alzato lo sguardo e di fronte la dedica Kobe Bryant Park. In un attimo, alle nostre spalle si è creata la fila, la voce si era diffusa e in tanti stavano accorrendo per un tributo.
Il podcast di Lewis Howes
Quelli sono stati i giorni in cui New York ha illuminato l’Empire e il Madison con i fari giallo-viola, un’immagine che ha fatto il giro del mondo. Nelle stesse ore, sul tetto di Modell’s dietro a Penn Station è comparsa una gigantografia di Kobe in bianco e nero. Ogni giorno attraversavo quell’incrocio, fermandomi sul lato della strada in silenzio, mentre nella mia mente passavano a raffica ricordi e immagini di Kobe e nelle orecchie Preach di John Legend.
Passeggiavo per Manhattan, avevo tante cose da fare, pensare, organizzare, ma la mente in quei giorni proprio non connetteva. Qualche mese prima, avevo scoperto il podcast di Lewis Howes, un ex giocatore di football americano, diventato un imprenditore digitale. Aveva intervistato Kobe e caricato la puntata nei mesi precedenti. Proprio quella settimana, aveva rilanciato l’episodio, aggiungendo alcuni aneddoti sull’incontro. Ho attraversato Gran Central Station, mi sono isolata mentalmente dal traffico e mi sono persa fra le strade di Midtown per tutta la durata dell’episodio.
Andaluz the Artist
Mancavano pochi giorni al mio ritorno a casa, eppure quell’evento aveva completamente sconvolto le mie ultime settimane in America. Circolava sui social la notizia che Anzaluz the Artist, stava creando un’opera dedicata alla memoria di Kobe, Gianna e le altre vittime dell’incidente di Calabasas. L’opera è stata completata i primi di febbraio. Un tributo tanto incredibile da lasciare senza parole che copre la parete di un vecchio locale, a pochi metri dal Barclays Center.
Era il 6 di febbraio, il giorno seguente avrei lasciato ancora una volta New York. Sono tornata su Atlantic Ave. Pioveva e il freddo newyorkese puntava dritto dritto alle ossa. Mi sono fermata una volta ancora davanti all’opera di Andaluz. In quel momento, mi sono voltata e al mio fianco c’era un ragazzo con il cappello nero dei Lakers. In silenzio, entrambi osservavamo il graffito. Poi all’improvviso, lui ha avviato una conversazione. Abbiamo parlato di quanto accaduto e abbiamo ricordato la Mamba Mentality, il giocatore, il campione, ma soprattutto l’uomo. Il carisma, la capacità di unire il mondo, di appassionare milioni di persone a questo sport. Era davvero giunto il momento di tornare a casa e lasciare New York.
Quelle giornate sono scolpite nella mia mente da un anno. Kobe era ed è un punto di riferimento, un supereroe, il campione che non ha mai dimenticato di essere uomo.
Grazie Kobe per la tua legacy. La tua dedizione, il tuo esempio, la tua passione resteranno per sempre.
Vi lascio il link alle interviste di Fabieke e Mr Piskv, due artisti italiani che hanno realizzato alcune opere dedicate a Kobe fra Bologna e Roma.
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